Inseguendo l’alba per la cresta Kuffner

"Andre, dai, corriamo, ci siamo quasi, manca poco!"

"Cavolo, non ce la faremo mai a prendere l’ultima..."

"Andre, hai soldi con te?"
"No! zero!"
"Cavolo. anche io zero."
"Allora dobbiamo farcela! Altrimenti ci tocca scendere a piedi da Punta Helbronner..."

Il nostro sguardo era rivolto solo ai piedi che ci trascinavamo dietro come fossero mattoni, innalzavamo il capo solo per capire quanto mancasse alla fine di quell'interminabile giornata.

Agosto 2018

I ricordi che ho di quell'agosto sono tantissimi e tutti legati a interminabili giornate in montagna.

"Allora domani si va su! Max, tu verrai?"
"In tre saremo lenti e non mi va di finire in impicci, andate voi, Ale! Così sarete più veloci, io resto a riposare."

In quel periodo quando non eravamo in montagna passavamo le nostre giornate a far passeggiate in valli a noi sconosciute cercando di decidere cosa fare nei giorni successivi in base alle condizioni meteo.
La scelta questa volta fu la Kuffner, una magnifica e lunga cresta che porta sulla cima del Mount Maudit.
Andrea e Max il giorno prima avevano tentato la cresta dell’Innominata, che per una serie di fatalità dovettero abbandonare dopo essersi trovati "per colpa di tracce sbagliate" nel posto sbagliato e avevano avuto difficoltà nel compiere le calate di rientro.

Era il 18 agosto. Dopo aver deciso di fare questa via mi sentii con Luca, un amico Guida Alpina di Cortina, che ci diede delle dritte sulla logistica e sull’itinerario, consigliandoci di non raggiungere il Col de la Fourche e bivaccare, perché le condizioni della cresta partendo dal bivacco non erano ottime, bensì di partire dal rifugio Torino e di proseguire dritti in giornata fino in cima. Così facendo avremmo allungato la nostra salita, ma in cambio ci avrebbe fatto evitare quel tratto malmesso e una notte al bivacco. Decidemmo che la cosa più̀ giusta era seguire il buon consiglio di Luca.

Al mattino seguente preparammo il materiale e l’occorrente che ci serviva per questi due giorni e ci dirigemmo a Courmayeur. Facemmo il biglietto per il nostro allegorico giro sullo Sky Way e andammo al rifugio Torino.
Lì dal Rifugio è possibile ammirare gran parte delle salite e cosi facemmo con la nostra cresta. Muniti di binocolo iniziammo a dar occhio a quello che ci avrebbe atteso l’indomani, non avendo relazioni dettagliate della salita benché avessimo scandagliato la rete e le varie guide che avevamo, facemmo fede a ciò̀ che dal binocolo vedevamo e con sensi di logica interpretavamo la nostra linea da seguire.

Passammo una bella serata al rifugio, cercavamo di capire ancora cosa ci attendesse il giorno successivo e pensavamo e speravamo di esser soli a far quella salita, ma le speranze lasciavano spazio alla vista di quel rifugio pieno di scalatori che noi guardavamo cercando di origliare i loro discorsi per capire dove fossero diretti.
Finita la cena andammo subito a dormire, la sveglia ci avrebbe fatto saltare giù dalle nostre brande dopo poche ore di sonno.

Erano le 2:00 del 20 agosto quando lasciammo il rifugio Torino e ci incamminammo sul ghiacciaio diretti al Circolo Maudit. Il cielo era stellato, sgombro da nuvole, ci sentivamo come dei piccoli astronauti su un pianeta sconosciuto fatto di ghiaccio e possenti rocce. La luna disegnava netti i profili delle creste che tagliavano il cielo, le cime di quelle rocce sembravano tanti denti aguzzi di squali, insomma eravamo in un posto misteriosamente affascinante. Durante la lunga camminata che ci portava al circolo Maudit incontrammo diverse cordate dirette nei posti più disparati del Massiccio, ognuno andava per le sue, ma erano tutti lì per un unico motivo: arrivare in cima.

Man mano che camminavamo verso il nostro punto di attacco della via passammo sotto la Nord della Tour Ronde e, nonostante il freddo della notte, scaricava qualche invisibile masso, ne udivamo il passaggio a decine di metri da noi, per questo decidemmo di deviare a NNO verso la parete E del Gran Capucin.

Dopo poco, dritto davanti a noi spuntava la cima del magnifico Grand Capucin: il cielo colmo di stelle ne disegnava il suo perfetto profilo in una danza di spigoli fino in cima alla sua perfetta punta. Un brivido mi percorse la schiena e il mio pensiero vagava tra quelle pagine di racconti di Walter Bonatti che lo aveva visto impegnato sulla Est insieme a Luciano Ghigo nel 1951. Il mio sguardo era lì, fermo a osservare quel pezzo di storia, e la mia mente continuava a vagare, ma una folata di vento e una cordata che ci passò di fianco distolsero la mia attenzione, facendomi riprendere i passi e puntare alla nostra strada da percorrere.

Poco dopo eravamo al circolo Maudit, un anfiteatro di rocce e ghiaccio così imponente da farci fermare per osservare l'unicità̀ di quel momento. Ci girammo intorno e da lontano vedemmo tanti piccoli puntini luminosi che si dirigevano alla Aiguille du Diable. Esclamai: "Dai, Andre, sono tutti lì! Oggi saremo soli". Il nostro avvicinamento al Col de la Fourche non era ancora terminato, quindi riprendemmo i nostri passi, ma questa volta senza fermarci a osservare ciò che ci circondava. Il tempo scorreva e non potevamo tardare.

"Ma quelle sono luci!" esclamai con un tono meravigliato, non avendo incontrato nessuno diretto lì.
"Sì, ne vedo quattro se non erro."
"Ma guarda, Andre, ce ne sono due a sinistra e due a destra."

Capimmo che non eravamo soli quella notte, ma ci stavano ben due cordate avanti e stavano attaccando il canale che porta al Col de la Fourche. Il nostro passo accelerò, non volevamo trovarci sotto di loro in quel canale sapendo fosse magro... qui far cadere un masso non sarebbe stato poi così complicato.

"Sbaglio o quei due stanno attaccando la terminale?"
"Sì, così sembra."

Avvicinandoci alla terminale che fa da muro per l’attacco del canale diretto si fece tutto più chiaro: due alpinisti avevano deciso di passare la terminale attaccandola da sotto e superando lo strapiombo, mentre altri due erano all’estrema sinistra nel punto più debole.

"Quella roba è da folli, Andre, noi andiamo a sinistra dove è più facile!"
"Ok!"

Alle 3:30 eravamo pronti per salire il canale che ci avrebbe portato al Col de la Fourche. Iniziai io, mi portai in alto superando la terminale. Dopo una decina di metri traversai a destra, piazzai una vite e recuperai Andrea.

Mi raggiunse subito e da lì con le nostre frontali illuminammo il canale per capire dove andare. Data la magrezza di quel periodo non potevamo banalmente salire dritti, ma dovevamo cercare la linea meno effimera di ghiaccio. Lasciai Andrea alla vite e iniziai a salire diagonalmente verso l’alto. Improvvisamente un masso mi passò vicino, lasciando un fischio che rimbombava nella mia mente.

"Andrea, tutto bene?"
"Sì, tutto ok, è passato un masso, andiamo su prima che si faccia tardi."

Mi resi conto che eravamo nel posto sbagliato. Dopo pochi istanti udii un altro fischio, questa volta ci mancò poco. Velocemente mi portai all’estrema sinistra del canale, traversando di una decina di metri quasi tutti in orizzontale. Ero alla ricerca di un riparo prima che qualcosa ci colpisse, continuavano a cadere massi in tutte le direzioni, recuperai Andrea togliendolo dal centro del canale.

"Andre, siamo messi male, saranno le due cordate su che fanno cadere roba."
"Ohhhh! Ehiii! Fate attenzione, ci siamo noi sotto" iniziò a urlare Andrea, sperando prestassero più attenzione e per informarli della nostra presenza lì sotto.

Attendemmo qualche minuto prima di rimetterci a scalare, tutto taceva. Ripresi la mia diagonale verso destra riportandomi al centro del canale per poi salire dritto. Tutto sembrava andar bene, quando improvvisamente udì un nuovo fischio e un'altra scarica, questa volta sulla nostra destra.
Con tutta la voce che avevamo iniziammo a urlare: "Fate attenzione, siamo sotto di voi, fate attenzione!", ma tutto sembrava vano. Dal centro del canale questa volta dissi ad Andrea di seguirmi verso destra, cacciai dieci metri di corda dallo zaino e proseguimmo in simultanea. Io davanti piazzavo protezioni con un auto bloccante messo al contrario per evitare di farmi trascinare giù in caso di caduta del mio compagno, tra noi ci stavano almeno due viti. In questo modo raggiungemmo subito il lato destro del canale cercando riparo. La situazione non cambiò, sembrava che queste scariche non finissero più. Continuavamo a gridare chiedendo di prestare attenzione, ma nel frattempo non restammo lì fermi, decidemmo di proseguire il più velocemente possibile verso l’alto.

Dopo circa due ore dall’attacco del canale diretto eravamo finalmente al Col de la Fourche. Demmo un'occhiata veloce al canale, poi guardammo il sole che sorgeva e mentre avvolgevamo la corda discutevamo sul da farsi.
Una volta in cresta proseguimmo molto veloci. Purtroppo avevamo perso tempo e dovevamo sbrigarci. Delle cordate che ci precedevano, neanche l’ombra. Ci chiedevamo quanto loro fossero stati veloci o quanto noi lenti.

“La Kuffner credo vivamente che sia uno degli itinerari classici più belli del massiccio, questa incredibile cavalcata che finisce in punta al Mont Maudit fu salita per la prima volta dal 2 al 4 luglio 1887 da Moriz Von Kuffner, Alexander Burgener e un portatore. Partiti da Courmayeur, risalirono il fianco orientale del ghiacciaio della Brenva fino ad arrivare dove attualmente si trova il bivacco della Fourche. Da lì seguirono la cresta fino in cima al Mount Maudit per poi raggiungere la vetta del Monte Bianco”.

La nostra giornata proseguì senza soste, senza quasi mai girarci intorno per godere del panorama perché dovevamo recuperare il tempo perso al mattino. A un certo punto incontrammo una cordata e man mano che ci avvicinavamo ci rendemmo conto che era una coppia. Ci scambiammo qualche parola e subito ci distaccammo molto velocemente. Più avanti ci trovammo di fronte a un canale ghiacciato dal lato della Brenva, la cui sommità usciva in cresta. Lasciai Andrea a farmi sicura tra le rocce e mi avviai verso il centro. Feci 15 metri, piazzai una vite e proseguii per altri 20 metri obliquando verso sinistra per far sosta su un grosso masso a dieci metri prima della fine del canale. Piazzai subito una protezione mobile (friend) e recuperai il mio compagno. Arrivato, lo assicurai e velocemente mi avviai dritto, dove avevamo intravisto un canale roccioso che saliva sulla sinistra e proseguiva sotto il fil di cresta. Arrivato alla fine del tiro di corda recuperai Andrea, che fece giusto in tempo a staccarsi dal masso e a percorrere dieci metri, quando udimmo improvvisamente un boato sordo, come se una nave avesse urtato la banchina: quel masso dove stava il mio compagno a farmi sicura si mosse lentamente come se fosse in punta di piedi, scivolò giù verso il vuoto e scomparve nel nulla. Io e Andrea ci guardammo negli occhi ed esclamammo: "Cavolo, per poco!". Con questo ci rendemmo conto che si era fatto troppo tardi e dovevamo aumentare la nostra velocità. Dopo una serie di rocce e un risalto di neve arrivammo alla parte sommitale della cresta. Finalmente mancava poco alla cima, cento metri di dislivello per arrivare in vetta. Ci incamminammo verso la cima e quando sbucammo sulla parte finale ci accorgemmo che la calata del seracco che scende per la via normale dal Monte Bianco era piena di alpinisti in fila che aspettavano il proprio turno per calarsi, proprio come in una fila di un supermarket. Era tardi, troppo tardi per andare lì e aspettare il nostro turno, ciò non ci avrebbe permesso di ritornare in tempo, pensammo “bene” che la cima non andava fatta.

"Ale, se andiamo in cima rischiamo di non farcela a rientrare."
"Ok, cosa ne dici se raggiriamo questo seracco e diamo uno sguardo, magari riusciamo a trovare un'alternativa!"
"Dai, allunghiamoci ancora un po' e vai."

Pensammo che l’unica cosa da fare, se pur sbagliata, era attraversare i seracchi e andare dritti alla fine della calata e da lì prendere la via normale. Il sole era alto, faceva caldissimo e non era di sicuro quello il momento di mettersi sotto dei seracchi alti più di 20 metri, ma era l’unica alternativa valida che avevamo per risparmiarci quel caos. Allora decidemmo di attraversare questa zona e andammo tenendoci distanti circa dieci metri. Quel posto era davvero inospitale, il sole rifletteva su quelle enormi strutture di ghiaccio come se fossero enormi grattacieli di vetro, si percepiva il loro sguardo vigile nel vederci attraversarli quasi volessimo sfidarli. In un lasso di tempo brevissimo che non ricordo, quasi come se fosse stato uno stato di trans, ci ritrovammo sulla normale, da lì iniziò una corsa contro il tempo per rientrare in Italia.

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La storia delle Guide Alpine